Empatia: una parola abusata, ma essenziale

Cosa è l’empatia? Prima di tutto, è una parola abusata. Pare infatti che oggi tutti siano empatici, eppure la nostra società ha fortemente bisogno di empatia, davvero. Quindi i conti non tornano. Conosco manager che invitano i loro dipendenti ad essere empatici coi loro clienti, life-coach che ripetono continuamente che il segreto della comunicazione efficace sta nell’ascolto e nell’empatia, medici che giurano che l’empatia col paziente è il 40% della cura, psicologi che fanno corsi universitari sull’argomento, partner che si lamentano di quanto sia poco empatico/a il/la compagno/a al suo confronto. Eppure non mi pare che viviamo nell’ascolto e nella comprensione, purtroppo.

Generalmente, la risposta classica che si da alla domanda con cui si apre questo articolo è la seguente: “è la capacità di comprendere appieno lo stato d’animo altrui”. Siete soddisfatti? Io no. Eppure questo sentirete dire dai manager, life-coach, medici, psicologi, partner di cui sopra. Il fatto è che generalmente tutti siamo convinti di essere in grado di comprendere l’altro, ma non abbiamo molti mezzi per verificarlo. Dunque, alcuni, forse i più onesti, si convincono che la parola empatia sia troppo astratta.

In questo articolo tenterò di dare una definizione un po’ più convincente, anche se purtroppo, per i motivi di cui dirò in seguito, non sarà completa. Riprenderò i concetti di due grandi psicologi che hanno approfondito forse più di altri questo aspetto: Carl Rogers ed Alexander Lowen.

L’empatia deve farsi sentire

Rogers (1951) pone la capacità del cliente di tendere alla salute e all’autorealizzazione alla base del processo terapeutico. La fiducia del terapeuta nelle risorse naturali del cliente, visto come “miglior esperto di se stesso”, e la piena e profonda accettazione di tutti i contenuti che porta, all’interno di una relazione caratterizzata da rispetto, ascolto empatico ed autenticità, sono in grado di attivare il potenziale di autorealizzazione del cliente. Quando il terapeuta è sinceramente interessato a comprendere il cliente ed è capace di stabilire con lui un clima di calore e di fiducia, allora il cliente è facilitato ad aprirsi ad una comunicazione più profonda e rivelatrice del suo mondo soggettivo. Inoltre, il cliente che esperisce una relazione di questo tipo apprende nuovi modi di relazionarsi con se stesso e con gli altri.

L’atteggiamento genuino di accettazione e di empatia da parte del terapeuta è una condizione necessaria, ma non sufficiente, per la realizzazione di quel clima che incoraggia l’iniziativa verbale e fa superare le rigidità difensive che ostacolano l’esplorazione dei contenuti della coscienza del cliente.

L’atteggiamento empatico deve diventare un comportamento percettibile per il cliente. Con le parole di Rogers (1951), il terapeuta è tenuto ad implementare i propositi comunicativi di empatia, accettazione, rispetto, rassicurazione, incoraggiamento. Puoi trovare altre nozioni sull’approccio di Rogers in questo link.

Ascolto attivo, non passivo

empatia
L’empatia richiede di potersi sintonizzare emotivamente e con il corpo con l’altro e di fare arrivare all’altro la nostra comprensione.

L’implementazione dell’atteggiamento di fiducia e di accettazione del terapeuta consiste, secondo Rogers, nella prova dell’impegno a capire ciò che il cliente sta dicendo o sta cercando di dire. Tale impegno diviene percettibile dal cliente quando il terapeuta produce uno sforzo attivo, vigile e continuo di capire i significati espressi dal cliente, evitando di distorcerli attraverso i propri schemi e di interferire con l’esplorazione che sta effettuando il cliente, cercando di adottare il punto di vista e lo schema di riferimento del cliente per arrivare a capire come egli percepisce il mondo. Il terapeuta fa domande, chiede chiarimenti, esprime la propria curiosità con le parole e con il corpo. Tale atto comunicativo che da una parte rispetta totalmente il discorso del cliente evitando ogni interferenza e dall’altra rende esplicito lo sforzo attivo di comprensione da parte del terapeuta può essere facilmente frainteso.

Non si tratta di un atteggiamento passivo o lassista nei confronti di ciò che sta dicendo il cliente. Ben lungi dal creare un clima di accettazione empatica e di fiducia, l’ascolto passivo crea, al contrario, un’impressione di indifferenza e di rifiuto e il terapeuta non sembra affatto sforzarsi di capire cosa il cliente dice. Non si tratta, inoltre, di un atto di chiarificazione di ciò che sta esprimendo il cliente. Oltre a presentare il rischio dell’intellettualizzazione, questo tipo di intervento mina alla base la fiducia del terapeuta nel cliente quale “miglior esperto di se stesso”. Chiarificando, il terapeuta si definisce come l’esperto che ne sa più del cliente stesso e di fatto interferisce con la libera espressione di quest’ultimo. Infine, l’implementazione degli atteggiamenti del terapeuta sembra essere completamente incompatibile con l’interpretazione.

Essere curiosi

Prima di procedere oltre: diffidiamo dunque dell'”empatia” di coloro che ci ascoltano passivamente, di coloro che pretendono di chiarire e fare il riassunto di ciò che abbiamo detto, e soprattutto di coloro che trovano reconditi significati ed interpretano le nostre parole.

Il terapeuta può compiere varie cose per far arrivare al cliente la propria empatia. Può richiedere chiarimenti (non farli in prima persona, prendendosi l’ultima parola); può fare il tentativo di riassumere ciò che il cliente sta dicendo, facendosi però confermare quel che ha detto e quindi richiedendo al cliente di completare con quel che manca; e molte altre cose che qui non ho modo di approfondire. Capiamo quindi perché l’empatia definita come “la capacità di comprendere appieno lo stato d’animo altrui” sia estremamente superficiale.

Empatia come risonanza

Non si tratta di comprendere “appieno” uno stato d’animo, ma di porsi in risonanza con esso, sentirlo dentro di sé almeno nelle sue caratteristiche fondamentali. È il cliente il solo ad avere, almeno potenzialmente, il pieno contatto con se stesso; il terapeuta può solo tentare, il più possibile, di porsi in sintonia con gli stati d’animo del clienti, anche senza “comprendere appieno” sul momento tutti i contenuti della sua coscienza, ma per lo meno qualche suo “schema di riferimento”.

In conclusione, gli atteggiamenti di fiducia e di empatia del terapeuta possono essere implementati attraverso lo sforzo attivo, rispettoso e caldo di adottare lo schema di riferimento del cliente e di percepire con gli occhi del cliente (per quanto possibile), nonché attraverso la comunicazione di questa comprensione. Il terapeuta che cerca di entrare nella pelle del cliente e di vivere le sue emozioni invece di osservarle, cogliendone le sfumature e le mutazioni, ne diviene l’alter-ego, l’immagine allo specchio.

Il cliente ha così l’occasione di parlare a se stesso attraverso un’altra persona e quindi di vedere i propri sentimenti e atteggiamenti, nonché la discrepanza tra di essi, con maggior chiarezza, profondità e verità.

L’empatia del terapeuta permette al cliente di sentire le proprie emozioni e di desiderare di comunicarle in modo più chiaro e accettabile, avvicinandosi così, insieme al terapeuta, alle aree del proprio Sé sentite come maggiormente pericolose ed inavvicinabili.

Empatia come risonanza corporea

Il terapeuta empatico diviene quindi uno specchio. Esiste un’altra potente metafora per comprendere quel che accade in un contesto in cui vige l’empatia. Lowen descrive l’empatia come:

La capacità di sentire cosa sta accadendo ad un’altra persona […], che si fonda sul fatto che il nostro corpo entra in risonanza con altri corpi viventi.. Se questa risonanza manca, ciò vuol dire che non siamo in risonanza con noi stessi. Chi dice ” Non sento niente” ha spento non solo il senso della propria vitalità, ma anche qualsiasi sentimento possa nutrire per gli altri, uomini o animali che siano.

Alexander Lowen

Questa frase è davvero ricca di significato. Prima di tutto, pone l’empatia su un piano quasi esclusivamente emotivo-corporeo: sono i corpi che entrano in risonanza, non la mente o le parole. Da qui si evince ancora una volta che la “piena comprensione” non è quella cognitiva dei contenuti di pensiero di chi ci sta parlando, ma quella sensoriale ed emotiva di ciò che la persona sta provando.

lloyd empatia
L’empatia è entrare in un’emozione, non farla uscire o “capirla”

L’empatia è la capacità di guardarsi dentro, di comunicare all’altro ciò che si prova, di creare una connessione con l’altro. Non ha nulla a che fare col trovare una soluzione oppure migliorare la situazione dell’altro.

Ecco il motivo quindi per cui su un blog non si può parlare pienamente di empatia: essa va provata, vissuta, sentita, prima ancora che capìta a parole.

In fondo a questo articolo trovate un video che spiega molto bene l’empatia, per quanto possibile, e che aiuta anche a distinguerla chiaramente dalla compassione. Buona visione!

Bibliografia

Rogers C.R. (1951) Client-centered therapy: its current practice, implications and theory, Boston, Houghton Mifflin; trad. italiana Terapia centrata sul cliente, Firenze, Giunti, 1970.

Lowen A. (1958) The language of the body, New York, Macmillian; trad. italiana Il linguaggio del corpo, Milano, Feltrinelli, 1978.

Lowen A. (1967) The betrayal of the body, New York, Macmillian; trad. italiana Il tradimento del corpo, Roma, Edizioni Mediterranee, 1982.

Lowen A. (1975a) Bioenergetics, New York, Coward McCarin & Georgen Inc; trad. italiana Bioenergetica, Milano, Feltrinelli, 1983.

Lowen A. (1975b) Depression and the body, New York, Macmillian; trad. italiana La depressione e il corpo, Roma, Astrolabio, 1980.

Lowen A. (1980) Fear of life, New York, Macmillian; trad. italiana Paura di vivere, Roma, Astrolabio, 1982.

Lowen A. & Lowen L. (1977) The way to vibrant health, New York, Harper & Row; trad. italiana Espansione ed integrazione del corpo in bioenergetica: manuale di esercizi pratici, Roma, Astrolabio, 1979.

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